Premio "LA QUARA" Borgo Val di Taro          25/08/2018
                                                                ANGELINA
Scostò appena le tendine dalla finestra e guardò fuori. Rimase a fissare la porzione di giardino che lui avrebbe attraversato per raggiungere l’ingresso della villetta.
“Se arriverà in ritardo, cominceremo male”, pensò.
Il giorno prima era venuto accompagnato. Tra loro una presenza professionale, che aveva il compito di stemperare la tensione dell’incontro e ridurne l’impatto.
A dire il vero, il ragazzo non aveva detto una parola, ad eccezione di un forzato “mi dispiace” che sicuramente gli era stato imposto. Aveva puntato lo sguardo prima sul muro di fronte, come ci vedesse chissà che, e poi verso la finestra.
Era palese che rifiutava in blocco quella situazione, eppure stava lì. Angelina aveva mormorato appena, “avevo paura che tu cambiassi idea”.
Quel primo incontro era stato breve, ma le era costato una fatica terribile. Ora mentre sbirciava dai vetri, si accorse che neanche se la ricordava la faccia del ragazzo; sicuramente era per via della crescente agitazione che ancora non riusciva a dominare. Comunque era decisa ad andare avanti. Cercò di ritrovare nella memoria il punto esatto in cui per la prima volta le era entrata in testa quell’idea, ma non le riuscì. Sapeva soltanto che era un pensiero che non le dava pace, proprio come il ricordo di quanto era accaduto.
Ne aveva parlato con la Bruna, che da anni veniva ad aiutarla nelle faccende di casa; stavano bevendo il loro solito caffè e la donna aveva fatto un balzo sulla sedia: “signora Angelina…cosa dice? Vuole che quel ragazzo venga qui? Vuole davvero aprire quella porta e farlo entrare in questa casa? Sinceramente non so come le sia venuta in mente una cosa simile! Con tutto rispetto mi sembra un’idea a dir poco assurda!”
“Lui lo avrebbe fatto, avrebbe voluto capire,” aveva spiegato Angelina.
Bruna le aveva preso una mano:
“E le sembra una buona ragione per mettersi in casa quel delinquente? Mi lasci dire le cose come stanno, Angelina: quello è un delinquente, non si può chiamare in altro modo. E non mi vengano a parlare di recuperare certa gente…io li metterei tutti al muro! E quello non si meriterebbe altro!”
“Ha solo diciassette anni!”
“Certo, un delinquente di diciassette anni. Cosa farà quando ne avrà trenta? Andrà in giro con il mitra?”
Angelina aveva la gola chiusa dalle lacrime, ma aveva ribadito:
“Lui avrebbe voluto capire.”
La Bruna aveva scosso la testa e mentre posava le tazzine nel lavello ripeteva: “ci pensi, ci pensi bene. E lo dico chiaramente, io non lo voglio incontrare.”  
Quando ne aveva parlato con il suo legale, lui era rimasto impassibile, ma lei era sicura che l’idea lo avesse spiazzato.
“Lei crede che averlo qui, potergli parlare, le sarebbe di aiuto?” le aveva chiesto, e intanto la guardava come si guardano le persone che non sanno quello che dicono.
“Non lo so, ma è quello che voglio, ne sento il bisogno.”
Così erano giorni che si ripeteva: quando saremo da soli io e quel ragazzo, cosa gli dirò? Cercherò i suoi occhi, e poi? Lo faro entrare qui, e poi?
Drizzò le spalle e si appoggiò al bastone: in quel momento lo vide arrivare. Lo vide aprire lentamente il cancello e venire avanti con passo svogliato, le mani in tasca.
Angelina si staccò dalla finestra e a piccoli passi si avviò verso l’ingresso. Si fermò dietro al portone e stette in ascolto. Da fuori non proveniva alcun rumore, ma non poteva esserne certa perché ultimamente l’udito le giocava brutti scherzi. Non se ne sarà mica andato? Si chiese.
No, lui c’era dall’altra parte. C’era davanti a quel portone, verniciato di verde e un po’ scrostato. C’era, ma stava lì a prendere a calci il gradino, invece di allungare la mano e suonare il campanello.
Che cazzata! Essere lì era proprio una cazzata! E lui era già pentito. L’avevano convinto facendo leva sulla possibilità di accorciare i tempi: “hai un’opportunità e non devi fartela scappare. Con una buona condotta potrai avere uno sconto di pena. Devi andarci Samuele.”
Beh, ci aveva ripensato. Erano tutti fuori di testa se credevano che lui avrebbe passato i pomeriggi con quella vecchia.
In quel tempo corto, eppure dilatato, che precede ogni decisione, stettero lei di qua e lui di là di quel varco, senza sapere bene cosa fare. Poi d’impulso Angelina aprì il portone.
Così lo ebbe davanti. Aveva una faccia da bambino con un accenno di barba mal rasata. Era cupo, cattivo.
Così la ebbe davanti. Il viso segnato dagli anni e lo sguardo azzurro.
Lei ebbe un impercettibile attimo di esitazione, poi disse, entra.
Lui rimase dov’era. Angelina ripeté, entra.
Samuele biascicò un “fanculo”, poi fece qualche passo e chiuse il portone dietro di sé. Loro dentro, e tutto il resto fuori. Perché ci sono cose che bisogna risolvere da soli.
Angelina si diresse verso la cucina, facendo cenno al ragazzo di seguirla. All’improvviso sentiva crescere dentro di sé la determinazione.
“Siediti – disse – voglio parlarti di lui.”
Samuele rimase in piedi, e teneva sempre le mani in tasca. Si appoggiò al muro, pensò: cazzo, adesso mi tocca sentire tutta la storia. Meglio la galera.
Lei quel pensiero glielo aveva letto in faccia, ma lo ignorò. Iniziò a parlare, guardandosi le mani appoggiate sul tavolo, e sembrava che parlasse a se stessa.
“Stavamo insieme da più di cinquant’anni, considerato anche il periodo di fidanzamento. La prima volta che siamo usciti da soli siamo andati al luna park. Lui ha detto: proviamo le montagne russe? E io: perché no? Ho vomitato l’anima. Credevo che non l’avrei più rivisto, invece da quel momento non mi ha più lasciata.”
Samuele rimaneva appoggiato al muro. Incrociò gambe e braccia, pensò: se non la smette, me ne fotto dello sconto di pena e me ne vado. Cercò di estraniarsi il più possibile, ma gli arrivavano ugualmente le parole di Angelina… “lui insegnava fisica…aveva un rapporto speciale con i ragazzi. A volte ne ero persino gelosa…”
A un tratto, un po’ a fatica, lei si alzò dalla sedia: disse, vieni con me, e si avviò verso le scale. Il ragazzo la seguì di malavoglia e di nuovo si trovò alle prese con quello sguardo celeste.
Lei ironizzò:
“Mi devi aiutare a salire, altrimenti arriverò lassù domani.”
Merda! Questa è tutta scema. Vecchia e scema, se pensa che mi faccio comandare.
Lei chiese un’altra volta: mi puoi aiutare? Allora lui la prese per un braccio, e fu così sgarbato che quasi le fece male.
Non ha importanza, si disse Angelina: il contatto fisico, anche minimo, era la prima barriera da superare, ed era indispensabile perché senza quel passaggio l’altro rimane sempre un estraneo. Così gli sorrise.
Salirono. Due rampe di scale in cambio di una stanza con le pareti rivestite di scaffalature.
“A lui piaceva da matti collezionare cose”, Angelina indicò un numero imprecisato di oggetti, dai modellini di auto, ai sassi, alle scatole di latta… “ma la sua vera passione erano i fumetti, di ogni genere. Credo che ce ne siano più di cinquecento. A volte portava qui qualcuno dei suoi ragazzi, e loro potevano fermarsi a leggere, se volevano.”
Non disse che per lo più erano ragazzi problematici, e che lui aveva una sua teoria per cui i personaggi dei fumetti che i ragazzi preferivano erano la risposta inconscia al loro vuoto dentro. A volte era un inizio per comprendere meglio il malessere che li assoggettava. Ne aveva aiutato di alunni difficili! Cercava risposte, il marito di Angelina, sempre.
Di chi è la colpa quando un ragazzo si perde?
Angelina arrivò al punto:
“Quel giorno stava proprio tornando dalla fiera del fumetto, e dentro alla sua borsa non c’era che qualche giornalino…”
In quel momento Samuele comprese che quella donna, vecchia e fragile, aveva in mente un piano e lo stava seguendo punto per punto. Lei sapeva già che strada percorrere, mentre a lui era stato detto che avrebbe dovuto adattarsi poco per volta alla situazione. Si sentì in svantaggio.
“Mi sono proprio rotto di ‘sto teatrino!” concluse tra sé. Non ne poteva già più, ma una cosa la voleva capire.
“Perché sono qui?” chiese.
Il cuore di Angelina accelerò: quelle erano le prime parole che Samuele pronunciava da quando era arrivato, ed erano parole dirette, che in qualche modo la facilitavano.
“Perché mi devi restituire almeno un po’ di quello che mi hai tolto”, rispose.


Mi hanno detto: o ci dimostri che hai le palle o sei fuori. Noi facciamo sul serio e i cagasotto non ci servono, e neanche i ladri di galline.
Mi hanno detto: si va a caso. Vogliamo solo vedere se hai fegato, tecnica, e se sai lavorare.
Motorino, casco e vai. Vai su quello. Quello con la borsa di cuoio. Vai Samuele! Cazzo!
Uno slaloon nel traffico. Afferrare la borsa non è stato facile, lui ha opposto resistenza. Nella fuga poi, ho urtato un’auto. Quello che stava al volante l’ha presa male, mi si è incollato dietro. Sono passato con il rosso e lui anche, poi mi ha tagliato la strada, è sceso dalla macchina e mentre cercavo di svignarmela mi ha bloccato. Dopo non ho capito più niente. Ricordo soltanto un casino di sirene.
Più tardi,  durante l’interrogatorio, mi hanno detto che l’uomo che avevo scippato era morto.
“Quando gli hai strappato la borsa, lo hai anche spinto? Lui probabilmente non la voleva mollare e tu lo hai trascinato? Gli hai dato un pugno?”
“No! Gli ho solo fregato la borsa.”
“Sarà meglio che dici come sono andate veramente le cose. Ci saranno dei testimoni, comunque.”
“Io l’ho già detto. Volevo solo la borsa.”
“Bene. Sappi che quell’uomo è caduto e ha battuto la testa.”  Una pausa che mi era sembrata un secolo. 
“E’ morto in ambulanza.”

Ora Samuele da qualche settimana, varcava quella soglia. Entrava nella casa dove l’uomo, morto per causa sua, aveva vissuto con Angelina per tanti anni. Quando arrivava davanti al portone, lo trovava socchiuso e questa cosa lo faceva sentire atteso. Anche se lui veniva lì unicamente per ottenere quello che gli era stato promesso, sentirsi atteso era una bella sensazione. Lui e Angelina giocavano lunghe partite a carte, in silenzio. Quando si gioca a carte rimanere in silenzio è quasi doveroso, ma per Angelina e Samuele era una necessità. Non avevano altro modo per conoscersi: lei aveva detto tutto quello che doveva dire, lui aveva ascoltato. Il gioco delle carte permetteva loro di studiarsi. Samuele non diceva mai niente, anche quando si accorgeva che lei barava, anzi si rendeva conto che sotto quell’aspetto la trovava persino simpatica, come quando aveva notato che correggeva abbondantemente il caffè, e che aveva un debole per gli smartphone.
Ma proprio quando lui iniziava a sciogliersi un poco, Angelina un giorno aveva rotto quel silenzio e gli aveva chiesto di leggerle alcune pagine di un libro: erano racconti di Hemingway.
Lui si era irrigidito, e in un attimo aveva riguadagnato distacco e supponenza.
“Non ti piacciono le storie? – aveva chiesto Angelina -  Le trame di Hemingway sono avvincenti.”
“Non mi va di leggere. Sono tutte scemenze!”
“Non ti chiedo di leggere per te, ma per me.”
“Non mi va e basta.”
Angelina aveva aperto il libro sulla prima pagina, pensierosa, poi aveva sospirato:
“Lui leggeva sempre per me. Aveva una voce calda che dava vita alle parole, le faceva vibrare. Se tu non lo vuoi fare allora leggerò io, ad alta voce. E tu starai a sentire.”
Mentre Angelina leggeva, Samuele riprese a estraniarsi: occupava il tempo a costruire piramidi con le carte, che del resto non erano state affatto abbandonate. Il ragazzo  mordeva il freno, tuttavia un po’ si appassionava ai personaggi e a certi intrecci, benché facesse attenzione a non darlo a vedere.  Accadde che un pomeriggio dopo aver letto alcune pagine, Angelina chiuse il libro e disse:
“Sono stanca, andremo avanti la prossima volta.”
Samuele sollevò lo sguardo su di lei e non riuscì a trattenersi: “ E no! Non può smettere proprio ora! Ha voluto che stessi ad ascoltare e adesso mi deve leggere come va a finire!”
“Sono stanca, davvero. E non mi sento neanche tanto bene.”
Angelina gli porse il libro:
“Leggi tu se vuoi; non sono che poche pagine!”
Lui distolse lo sguardo. Sembrò di nuovo ritirarsi nel suo guscio. Poi disse:
“Faccio fatica a leggere. Non so il perché. Faccio una fatica di merda, e non riesco a capire quasi niente di quello che leggo.”
Lei non fece alcun commento: rimaneva zitta, rifletteva. Infine, prima di parlare, si schiarì la voce.
“La prossima volta vedremo come va a finire questo racconto e poi metteremo da parte Hemingway. Che ne dici di provare con i fumetti?”
“A  fare cosa?”
“A leggere.”
“Non lo so. Non mi interessa.”
“Peccato.”
Ecco, adesso non vedeva l’ora di dire ad Angelina che ci aveva pensato su, e che gli sarebbe piaciuto parecchio leggere Tex, e che se avesse imparato a leggere come si deve, forse si sarebbe anche sentito meglio. Magari non gli avrebbe cambiato la vita, ma si sarebbe sentito meglio. Arrivò davanti al portone con questo pensiero in testa.
Il portone era chiuso.
Provò a dare una leggera spinta, ma niente. Era proprio chiuso. Bussò. Suonò il campanello, e scoprì che aveva un trillo simile a quello delle biciclette. Poi la chiamò: Angelina!
Quel portone verde, un po’ scrostato, che Angelina lasciava socchiuso per invitarlo ad entrare, all’improvviso era diventato ostile. Un muro, un confine. Sicuramente era successo qualcosa: lei non lo avrebbe mai chiuso fuori così. Samuele in quel momento ebbe coscienza che in quella sua giovane vita già tutta sbagliata, Angelina era diventata un punto fermo, e doveva saperlo. Fece un giro intorno alla villetta, ma anche le finestre erano tutte chiuse. Ritornò davanti al portone, osservò attentamente la serratura. Non era delle più semplici, ma con del fil di ferro e un po’ di fortuna lui poteva farcela. In realtà forzare serrature era la cosa che gli riusciva meglio. A fianco alla casa c’era una piccola costruzione, un ripostiglio per gli attrezzi da giardino, e là dentro, rovistando a caso Samuele trovò quello che cercava.
Cercò di recuperare la stessa freddezza di quando si preparava a entrare in qualche casa per fare man bassa. Non era facile; non si era mai sentito così scombussolato. Forse stava addirittura pregando. Forse fu addirittura ascoltato. La serratura dopo una iniziale resistenza si aprì, docile.
Lui corse in cucina, poi  nel soggiorno, ma Angelina non c’era. Guardò in tutte le stanze del piano terra senza trovarla, allora alzò lo sguardo verso le scale: fece i gradini a due per volta, arrivò in cima. La porta della stanza delle collezioni era aperta e Angelina era là, stesa a terra, il cellulare posato su un tavolino e un volumetto tra le mani. Era un’edizione speciale di Tex.
Quando arrivarono i soccorsi Samuele era seduto accanto alla donna che respirava a fatica: le aveva messo un cuscino sotto la testa e le parlava: “non stare a morire, Angelina, ti prego… devo dirti tante di quelle cose…non stare a morire, ti prego…”
Al medico disse:
“L’ho trovata così, non so da quanto tempo stava qui per terra. E’ grave?”
“Sei suo nipote?”
Samuele non rispose. Il medico aggiunse:
“Sei arrivato appena in tempo.”
Poco dopo l’ambulanza attaccò la sirena, e fu subito lontana.