La casa sul mare
Aveva sempre desiderato una casa al mare. Anzi, una casa sul mare. Dopo la laurea in architettura Giacomo si era trasferito in città, dall’entroterra a Genova. Aveva trovato lavoro quasi subito in uno studio di progettazione d’interni di cui in breve tempo era divenuto socio. Vivere la città era esattamente come aveva immaginato, ma il mare di Genova no, non era il mare che avrebbe voluto per sé. Il mare di Genova era l’acqua torbida del porto, le poche, risicate spiagge strappate allo sviluppo urbano, o ancora l’esclusività del Lido che egli stesso frequentava sebbene malvolentieri.
Il mare che Giacomo aveva in mente era un’altra cosa. Era quello che bagna una costa selvaggia, che ruggisce contro la scogliera o accarezza lembi di spiaggia incontaminati. Era una distesa in tutti i toni dell’azzurro e del blu, era l’acqua trasparente che ricama la battigia o la furia delle onde sotto il maestrale. Era una barca per andare a pesca e un faro solitario su un promontorio. Era sole, vento, tempesta, o specchio infuocato da tramonti incandescenti.
Prima o poi troverò una casa isolata a picco sul mare, un rifugio dove poter sentire la voce del mare , sempre, di giorno e di notte diceva spesso a Giulia. Lei rideva: una casa isolata? No, per favore! Sarebbe troppo deprimente. Non fa per me. Giulia, così diversa da lui. Giulia amava la città e stare tra la gente.
Era sempre presente a eventi culturali, cene, concerti: non perdeva occasione per soddisfare il suo bisogno di “esserci”, eppure era stata attratta dall’indole solitaria di Giacomo, quasi cercasse un contrappeso, un equilibrio. Si erano conosciuti a una mostra di pittura nella galleria d’arte che lei curava insieme al padre e immediatamente Giacomo era stato conquistato dalla sua vivacità e dalla capacità di affascinare chiunque l’ascoltasse mentre illustrava le tele esposte. Si muoveva da un visitatore all’altro con leggerezza, senza tralasciare nessuno, gli occhi verdi illuminati dal sorriso, la figura snella ed elegante. Ogni tanto con un gesto automatico della mano riportava dietro all’orecchio una ciocca di capelli color ebano che incorniciavano un viso senza dubbio attraente. Giulia gli si era avvicinata mentre lui osservava un dipinto: raffigurava un pino marittimo aggrappato a una sporgenza rocciosa a picco sul mare.
“Le piace questo quadro?” gli aveva chiesto.
“Sì, moltissimo. Vorrei viverci in un quadro così. Sarebbe sufficiente che al posto dell’albero ci fosse una casa.”
Lei aveva sorriso: “Una casa? Dovrebbe stare attento a non cadere in mare!” Poi aveva richiamato la sua attenzione sugli effetti cromatici dell’opera:
“Osservi le sfumature del verde e del blu, il colore delle nuvole sullo sfondo…sono questi i punti di forza del quadro. E’ d’accordo?”
Giacomo era d’accordo sul fatto che lei era bellissima. Un attimo dopo Giulia gli tendeva la mano:
“E’ stato un piacere. Spero che abbia trovato la mostra interessante.”
Lui aveva assunto un’aria costernata:
“E mi lascia così? Mi dedichi ancora qualche minuto!”
Lei gli aveva puntato un dito sul petto:
“Sarò libera per le otto e trenta. Mi inviti a cena!”
Ricordava perfettamente quella conversazione. Un anno dopo vivevano insieme. In seguito era nato Leo.
In quel mese di settembre in cui l’estate sembrava non voler finire, Giacomo si era concesso qualche giorno di riposo nella sua casa affacciata sul mare. Era quasi l’ora di pranzo e apparecchiata la tavola con il minimo indispensabile e l’immancabile birra, stava aprendo una confezione di lasagne da riscaldare quando sentì un’auto arrivare nella piazzetta davanti all’ingresso.
Posò sul tavolo la porzione di pasta ancora surgelata e andò a vedere. Chi poteva essere? Non aspettava nessuno. Aprì il portoncino e lo vide. Era sceso dall’auto e si guardava attorno, soffermando lo sguardo su ogni cosa: sugli oleandri ancora in fiore e la bouganville, sui vasi di gerani, la fontanella di pietra e infine sulla casa.
Osservava tutto con intensità, come a voler imprimere nell’anima ogni particolare, e Giacomo fissava lui. Non riusciva a credere che fosse lì. Leo, suo figlio. Da quanto tempo si erano persi? Da troppo, tantissimo tempo.
“Leo!” esclamò. Leo si voltò verso di lui, si mosse con passo lento e gli fu davanti:
“Ciao pa’” disse. “Leo…” ripetè Giacomo. Non riusciva a dire altro.
Suo figlio… era cambiato molto: più magro, il viso affilato, i movimenti stanchi, ma la somiglianza con Giulia, quella era intatta. In tutto e per tutto Leo rassomigliava a sua madre. La stessa incontenibile sete di vita che si trasformava in una frenesia sempre più difficile da contenere, ancor più difficile trovare il tempo per stare insieme. Gli sfuggivano.
Giacomo avrebbe voluto una famiglia più presente, forse più tradizionale. Avrebbe voluto più voce in capitolo nell’educazione di Leo, più regole e senso di responsabilità, ma per Giulia era inconcepibile limitare qualsiasi essere umano, figurarsi un figlio! Diverbi e scontri erano all’ordine del giorno e infine tutto era precipitato quando Giacomo la casa sul mare l’aveva comperata davvero.
Abbiamo commesso entrambi un errore di valutazione - aveva affermato Giulia – Vogliamo cose profondamente diverse, non possiamo andare avanti così.
Poco tempo dopo aveva chiesto la separazione.
La voce di Leo riportò Giacomo al presente:
“Non mi fai entrare?”
“Sì, sì…certo” Giacomo si fece da parte. Lasciò che suo figlio ritrovasse quegli spazi che da ragazzo aveva vissuto come una costrizione. Dopo la separazione dei genitori non voleva stare con suo padre né a Genova né in quella casa sul mare. Non sopportava ammonimenti e restrizioni di nessun tipo né di dover rendere conto delle proprie azioni.
A volte litigavano furiosamente, come con Giulia. Appena era diventato maggiorenne Leo si era allontanato da suo padre sempre di più, evitando ogni contatto, con un risentimento tale che Giacomo infine si era arreso. Ora era lì, ma nessuno dei due riusciva a superare la distanza accumulata in quegli anni. Nessuno dei due riusciva a compiere il primo passo per un abbraccio.
Leo osservava l’interno di quella casa con la stessa intensità con cui aveva raccolto ogni aspetto del piccolo giardino:
“E’ bello qui – disse – è sempre stato bello.”
“Leo…tu odiavi questo posto!”
Il giovane non rispose, si avvicinò alla finestra. Aveva davanti l’immensa distesa del mare, il lieve movimento delle onde, lo scintillio di infiniti frammenti di sole sul blu profondo dell’acqua.
“Si possono odiare anche le cose belle” affermò con voce rotta.
Giacomo cercò di ritrovare una parvenza di normalità:
“Hai pranzato? Stavo per riscaldare delle lasagne, posso aggiungere una porzione se vuoi.”
“Non ho molta fame, ma va bene, ti faccio compagnia.”
Poco dopo erano seduti a tavola, uno di fronte all’altro. Li univa e al tempo stesso li divideva, un silenzio sospeso, denso di attesa e di cose non dette.
Giacomo comprese che non poteva più aspettare: posò la forchetta, si abbandonò allo schienale della sedia e guardando Leo in faccia chiese a bruciapelo:
“Perché sei venuto qui? Come facevi a sapere che mi avresti trovato?”
Leo alzò lo sguardo dal piatto e incontrò quello di suo padre:
“Ho chiamato il tuo studio…” Sospirò. Appariva incerto, come gli mancasse il coraggio di continuare, poi disse tutto d’un fiato:
“Sono ammalato. Seriamente. Molto seriamente - Il tempo sembrò fermarsi – E non ho molte speranze. Volevo stare un po’ con te prima che… il destino ha voluto che tu fossi qui.”
Ma cosa dici? E da quanto stai male? Perché non me lo hai detto prima?E tua madre lo sa? Perché non mi avete avvertito subito? Chi è il medico che ti segue? Non può essere…
Un attimo dopo, forse per la prima volta nella loro vita, erano stretti uno all’altro, attraversati da un unico, indicibile dolore. Lacrime. All’improvviso niente aveva più senso se non la forza che bisognava trovare, ad ogni costo.
“Tienimi qui con te, fino al prossimo ciclo di chemio - mormorò Leo - Ho bisogno di te e di questo posto” Giacomo lo strinse a sé ancora più forte.
Attraverso la finestra socchiusa la voce del mare riempiva la stanza.