Una scatoletta grigia
La scatoletta grigio scuro sta lì sulla mensola, appoggiata accanto al televisore. La guardo con sospetto.
“Cos’è?” chiedo.
“Un cellulare – risponde mio marito compiaciuto – uno smartphone, per la precisione.”
“Uno smartphone?” gli faccio eco. Devo realizzare l’ingresso in casa di un nuovo telefonino.
“Sì, è per te.”
Senza staccare gli occhi dalla scatoletta rimango zitta, come sempre quando le cose che vorrei dire potrebbero diventare un fiume in piena di parole indecorose. Perché mio marito lo sa benissimo che io quegli “aggeggi” non li sopporto. Sono oggetti diabolici che creano dipendenza al pari di sigarette, alcool e sostanze stupefacenti: lui ne è un esempio eclatante. Dovunque vada, anche se in casa si sposta da una stanza all’altra, persino in bagno, si porta appresso questo benedetto smartphone come un’appendice vitale, talmente vitale che perdere il cellulare significa cadere nel panico da un momento all’altro, come trovarsi paracadutati senza paracadute. Io non riesco proprio a capire questo legame assurdo, che definirei simbiotico, con l’oggetto in questione.
Il marito che conosco, pronto a trovare una soluzione per ogni cosa o quasi, se smarrisce la sua “appendice” non è più lui e inizia a farneticare come in una vera e propria crisi di astinenza.
Cavolo, dove ho messo il cellulare?...Hai mica visto il mio cellulare?...Ma dove è finito?...Per prima cosa afferra il cordless e prova a chiamare l’aggeggio disperso per verificare in quale parte della casa si sia nascosto. Purtroppo spesso ricorda di averlo silenziato e quindi questa strategia non sempre funziona.
A questo punto inizia la sequela infinita delle possibilità: l’avrò lasciato in macchina…forse è rimasto sulla mensola del bagno…però non ha suonato…l’avrò posato sul bancone del bar questa mattina, mentre prendevo il caffè…allora di certo la signora lo avrà ritirato…e se me l’avessero rubato? La ricerca spasmodica, compulsiva, ai confini con la realtà, ben presto mi vede coinvolta per cercare di riportare nel più breve tempo possibile la situazione alla normalità. Quasi sempre, guidata da compassionevoli Entità Superiori, riesco a scovare quel “coso”, talmente tiranno, che la sua mancanza se pur temporanea, fa uscire completamente di testa. Ecco, io non voglio finire così. Non posso permettere che un piccolo schermo nero entri a gamba tesa nella mia esistenza condizionandola totalmente e lui, cioè mio marito, lo sa perfettamente. Eccome se lo sa, eppure incalza.
“Non lo apri?”
Sbotto:
“No di certo! Lo sai come la penso. Io quel coso lì non lo voglio. Il mio vecchio cellulare mi basta e avanza.
Posso chiamare e ricevere, non mi serve altro. Mi dispiace, ma questo…smartphone puoi anche riportarlo dove l’hai comperato.”
Lui non replica, non si offende, non si arrabbia, anzi mi sorride e dice “vedremo”, poi tranquillamente esce dalla mia cucina, abbandonando lì l’oggetto incriminato. Allora riaffiora in me prepotente il solito pensiero:  la tecnologia soffocherà il mondo, ma io opporrò una strenua resistenza. Quella scatoletta sparirà presto dalla mia vista e dal mio territorio. Ribadirò il concetto: io non voglio nessun telefonino ultima generazione, e riportalo indietro è l’unica cosa da fare. Ma non è così. Passano i giorni e io non tocco e non faccio sparire nulla, senza capire cosa mi trattenga. Eppure non sopporto contaminazioni di alcun genere nel mio spazio vitale. Non sposto la scatoletta nemmeno quando spolvero, come se l’intelligenza artificiale racchiusa in quel piccolo sarcofago esercitasse su di me un misterioso potere che va oltre la mia volontà. Tuttavia mi preparo mentalmente a controbattere ogni tentativo di convincimento, perché mio marito ci proverà a farmi cambiare idea, poco ma sicuro. Invece aspetto, ma niente. Lui ignora completamente la scatoletta, è come se neanche la vedesse e io la lascio dov’è, come un soprammobile. Poi un giorno accade qualcosa di assolutamente inaspettato: la scatoletta si mette a suonare. Emette uno scampanellio simile al campanello di una bicicletta. Un suono allegro ma insistente. Guardo la scatoletta con una certa apprensione: sono sola in casa, sto cucinando e non so che fare. Spero solo che smetta. Infatti smette, ma riprende un attimo dopo…e smette e riprende per non so quante volte. Ogni volta che riprende a suonare allungo la mano verso quel trillo, per ritrarla subito dopo.
Infine vinco ogni reticenza, prendo in mano la scatoletta e la apro con dita maldestre, nervose. Scopro il piccolo schermo illuminato, il nome di mio marito in evidenza e due “occhi – semaforo”, verde e rosso. Tocco il verde strisciando inconsapevolmente con un dito. Come ricompensa mi arriva, forte e chiara, la voce dell’artefice di tutta questa macchinazione:
“Hai risposto finalmente!”
“E già, ho risposto. Non so come, ma ho risposto” confermo.
“Vedi? Non è poi così difficile! Ora tocca il rosso e chiudi. Quando arrivo a casa ti spiego tutto il resto.”
Faccio come dice poi resto lì, con il cellulare tra le mani. Devo ammettere che ne sono incuriosita, lo trovo accattivante e scopro che non mi va di rimetterlo nella scatoletta. Alla fine io e il “coso”ci siamo incontrati e già lo so che questo incontro cambierà di parecchio le mie abitudini, addirittura il mio modo di essere e di interagire, ma ormai è fatta. Comunque lo userò con moderazione: chiamare, rispondere, forse qualche foto. Niente di più. Non mi farò fagocitare. Lo appoggio di nuovo sulla mensola accanto alla TV. Quello è il suo posto. Perfetto, ho uno smartphone anch’io e tutto sommato sono contenta…al passo con i tempi.
E sorrido.

Un anno dopo.
Quando mi sono accorta che accanto alla TV il posto era vuoto ho subito avvertito un angosciante senso di smarrimento. Immediatamente ho iniziato le ricerche, ma invano. Non è nella borsa e nemmeno nella tasca della giacca. Non è in macchina. A malincuore e ostentando una calma che non provo affatto, mi rivolgo al guru di questa mia conversione tecnologica e chiedo:
“Per caso hai visto in giro il mio cellulare?”
“No – risponde lui – ma provo a chiamarti. Se c’è, suona.”
Non gli dico che già ho provato io con il telefono fisso: chissà, magari lui ha più fortuna e in fondo la speranza è pur sempre un’ancora. Detto, fatto…ma nessuna allegra suoneria diletta le mie orecchie.
“Niente? – chiede lui, e aggiunge– Dove sei stata oggi?”
Elenco: supermercato, panificio, posta, farmacia.
“Allora lo hai sicuramente perso durante i tuoi giri” sentenzia colui che ha dato inizio a tutto questo.
Lo guardo sgomenta e inizio a sudare freddo. Mi sento dimezzata, perché nella memoria del mio Samsung c’è appunto metà della mia vita: gliel’ho affidata proprio io, di mia volontà. Oddio! Ricordo che nell’Ufficio Postale gremito di gente ho risposto a una chiamata… e poi? Cosa ne ho fatto? Non ne ho la più vaga idea. E adesso? Adesso…panico.
Il giorno dopo esco di buon mattino alla ricerca del mio alter ego telematico. E’ il farmacista a riaccendere il sole nella mia giornata anche se fuori piove.
“Deve esserle caduto inavvertitamente. Una signora l’ha trovato proprio davanti al banco” dice.
Lo bacerei, ma mi limito a sommergerlo di “grazie” a profusione. Grazie a lui, grazie alla signora che lo ha trovato, grazie all’Universo intero! Accarezzo la cover del mio insostituibile smartphone e lo metto ben al sicuro nella borsa. Ora sono tranquilla, ma questa notte non ho chiuso occhio pensando che se non lo avessi ritrovato avrei perso tutti i miei contatti, le fotografie…ecco, mi sono omologata ai miliardi di persone nel mondo che non riescono più a vivere senza tali dispositivi. Ero certa che questo incontro mi avrebbe cambiata, ma non a tal punto. Questa considerazione mi lascia un po’ di amaro in bocca, ma è solo un attimo. Faccio scorrere la cerniera della borsa e riprendo in mano il cellulare: controllo la carica della batteria, poi chiamo mio marito per avvertirlo del ritrovamento. Tutto avviene istantaneamente, in tempo reale.
“Ma come facevo prima?” mi chiedo “E quanta ansia in più ci procura questo bisogno di essere continuamente e immediatamente in contatto con chiunque?”
Non so rispondere, e comunque non cambierebbe di una virgola un dato di fatto: ora si vive così, con un’appendice vitale in più che puoi incontrare anche senza volerlo e che si chiama “smartphone.”
E’ perfettamente inutile opporsi. E sorrido.