Avrei potuto passare con il giallo, ma non l’ho fatto. Ho rallentato portando il piede dall’acceleratore al freno, premendo il pedale della frizione. Lentamente ho fermato l’auto proprio mentre il semaforo faceva scattare il rosso. In realtà quest’oggi non ho voglia di rientrare subito a casa. Piero è in trasferta per lavoro e i miei figli hanno lezione all’università e rientreranno tardi. Inoltre è quasi primavera. Sono appena uscita dall’ufficio e percorsi i pochi chilometri che mi separano dalla cittadina dove risiedo, lascerò l’auto in un parcheggio da qualche parte e mi concederò una passeggiata. Voglio approfittare di questo cielo azzurro e dell’aria mite per fare quattro passi, e senza una meta precisa è ancora meglio. Sento la necessità di una pausa, un breve spazio temporale per rallentare un poco il ritmo frenetico a cui sono sottoposta in questo periodo. In attesa del verde, sia nella direzione opposta alla mia che alle mie spalle, in pochi secondi si forma la solita colonna di veicoli. Al contrario nessuno si immette nella carreggiata dalle strade laterali e non c’è nessuno che attraversi sulle strisce pedonali, e poiché non è questo un caso, viene spontaneo chiedersi quale sia la reale motivazione riguardo all’esistenza di questi semafori. Ma ecco che a contraddire le mie vaghe supposizioni, sopraggiunge una donna: scende dal marciapiede e aggredisce le strisce pedonali di corsa, sul filo del giallo. Non so perché noto il suo abbigliamento, esclusivamente in jeans, ma ciò che più mi colpisce sono i capelli lunghi e biondissimi…e inaspettatamente il pensiero mi riporta a un’altra figura vestita di jeans e ad altri capelli di un biondo chiarissimo e rivedo lei, Anna.
No – mi dico – non può essere lei. Cosa potrebbe averla riportata qui? Vorrei che la donna si voltasse verso di me, vorrei vederla in viso, ma ormai ha raggiunto il marciapiede opposto e cammina velocemente nella direzione contraria alla mia. L’impazienza di un clacson mi avverte che è scattato il verde. Ingrano la marcia e intanto guardo nello specchietto retrovisore: la donna con i lunghi capelli biondi non c’è più. Invece il  ricordo di Anna che mi ha attraversata così alla sprovvista è rimasto lì, nei miei pensieri. Anna e la nostra amicizia.

Ci eravamo conosciute al primo anno delle scuole superiori e avevamo provato una per l’altra un’immediata simpatia. In pochi giorni eravamo diventate inseparabili. Anna era nata e cresciuta a Genova, dove abitava. Vestiva quasi sempre in jeans e il biondo dei suoi capelli, il viso perfetto e il sorriso sempre pronto la rendevano davvero unica. A volte mi chiedevo cosa le piacesse di me, studentessa pendolare come tanti, che ogni giorno dalla Valle Scrivia raggiungevo la città con il treno delle sei e quaranta, e vestivo gonne a pieghe e un cappotto a cui mia madre aveva allungato l’orlo sfruttando ogni millimetro di stoffa. E mentre Anna già osava truccarsi in modo evidente, io potevo contare unicamente sul mio viso acqua e sapone e i capelli castani tagliati a caschetto. Sicuramente ci compensavamo: lei vivace e impulsiva, io più tranquilla e posata. Era stata lei a farmi scoprire Genova poco alla volta. Accadeva che quando dovevamo prepararci per un compito in classe o un’interrogazione, io andassi a studiare da lei e mi fermassi a dormire a casa sua, ma capitava anche che fosse lei a venire da me. Allora uscivamo da scuola e prendevamo il treno che ci portava in questa cittadina tra i monti a ridosso di Genova, dove vivo tuttora. Anna saltava giù dallo scompartimento e se era d’inverno, magari con neve e ghiaccio, ogni volta esclamava: eccoci alla fine del mondo! E ogni volta ribadiva che tutto in queste valli era talmente diverso dalla città che lei non ci avrebbe mai vissuto, nemmeno per tutto l’oro del mondo. Io ridevo e rispondevo, e pensi che io vivrei nel caos di una città come Genova?  Tuttavia, benché non apprezzasse il provincialismo dell’entroterra, le piaceva moltissimo la compagnia del mio gruppo di amici. Non mancava mai alle feste di compleanno, alle gite organizzate, alle scampagnate…e poi qualche flirt, i primi baci…il confidarsi ogni cosa, ogni desiderio, mentre gli anni passavano con tutta l’impazienza della giovinezza. Venne il momento di affrontare l’esame di maturità e vivemmo quel periodo praticamente in simbiosi. I sogni si tramutavano in progetti, attese, speranze: l’università fu lo sbocco naturale per entrambe e la nostra amicizia divenne talmente salda che nulla, ma proprio nulla avrebbe potuto scalfirla. O almeno così credevamo. A distanza di poco tempo una dall’altra ci eravamo fidanzate rispettivamente con Piero e Giovanni, e le nostre uscite “a quattro” divennero quasi un’abitudine. Stavamo bene tutti insieme, sia che decidessimo per il cinema, sia che ce ne andassimo a zonzo con la cinquecento che Giovanni aveva acquistato di seconda mano, mentre d’estate le serate su una spiaggia qualsiasi, a levante o a ponente non aveva importanza purché non fosse troppo lontana, ci regalavano tramonti e romanticismo : chitarra e falò, momenti che ho ancora nella mente e nel cuore come appena vissuti. Tutto in quel periodo appariva estremamente facile, anche trovare lavoro. Io fui assunta in una banca e Anna in una compagnia di navigazione. Già pensavamo al matrimonio, con la voglia e l’entusiasmo di costruire qualcosa di bello, di duraturo, di importante.
Poi, all’improvviso tutto era andato in frantumi, come un vetro colpito da un sasso. In un colpo solo l’amore tra Anna e Giovanni e l’amicizia che ci legava andarono in mille pezzi e quel sasso si chiamava Matteo. Bello, enigmatico, volitivo era approdato nell’ufficio di Anna, e nel suo cuore, in un giorno di pioggia e vento, e aveva portato tempesta. Un amore sbagliato, che la gelosia di lui avvelenava sempre di più, irrimediabilmente, un giorno dopo l’altro. L’incalzare dei sospetti, gli interrogatori senza fine, le continue telefonate…eppure Anna sosteneva di amarlo come non aveva amato mai e di non poter fare a meno di lui. La gelosia e quel legame così possessivo non la infastidivano, anzi, lei si sentiva importante, unica, desiderata. Io non ero d’accordo: “non ne verrà nulla di buono, credimi – le dicevo – tu non sei un oggetto, non sei di sua proprietà!” Lei subito si alterava e rispondeva con rabbia che non potevo capire perché il mio amore per Piero era un sentimento tiepido, che non conosceva la passione e l’intensità emotiva che nasce dal voler appartenere alla persona che si ama, completamente, senza riserve.  Allora mi arrabbiavo anche io: “che ne sai tu del mio amore per Piero? L’amore vero si basa sul rispetto e la fiducia, non sul sospetto e l’inquisizione!” Ma era tutto inutile, Anna non accettava consigli, né punti di vista diversi da ciò a cui lei voleva a tutti i costi e disperatamente credere. Aveva lasciato Giovanni e in breve tempo si era allontanata anche da me. Con una scusa o con l’altra rifiutava i miei inviti, e addirittura cadde nel vuoto anche l’invito al mio matrimonio. Non rispondeva alle mie chiamate, né aveva risposto a una mia lettera, che le avevo scritto sinceramente accorata. Senza che io potessi fare nulla poco a poco scomparve dalla mia vita. La nostra amicizia aveva scritto la parola fine e di conseguenza anche Giovanni non si era più fatto vedere.

E’ incredibile come in pochi attimi la nostra mente riesca a ripercorrere anni della nostra vita.
Ma che pensieri mi attraversano oggi? Guido lentamente: nelle aiuole di un piccolo giardino che affaccia sulla strada sono fiorite le giunchiglie e mi sovviene di quando si andava sul M. Buio a raccogliere i narcisi…Anna…che ne sarà di lei? Improvvisamente avverto in me il desiderio prepotente di incontrarla, parlarle, abbracciarla. Una profonda nostalgia mi invade l’anima. Non ho più voglia di girovagare senza meta per le strade del paese. Vado a casa.

Sono giorni che penso a lei. Non so cosa mi ha preso, ma non riesco a togliermi dalla testa l’idea di poter ritrovare Anna, ed è un’altalena di congetture, di interrogativi, di intenzioni. A volte mi sembra plausibile che fosse davvero lei la donna che ho visto attraversare sulle strisce, ma un attimo dopo mi dico che è molto improbabile. Cosa potrebbe averla portata qui? Mi dico anche che dovrei smetterla di pensarci…in fondo sono trascorsi così tanti anni! Eppure il mio pensiero ritorna sempre a lei. Non so cosa fare e non mi va di parlarne con Piero, mio marito, o con i miei figli. E’una cosa solo mia: nostalgia, ricordi, rimpianto… Alla fine decido che proverò a rintracciarla, benché sappia perfettamente che non sarà cosa facile. E poi non è detto che lei eventualmente mi voglia incontrare, tuttavia sono determinata ad assecondare questo mio tuffo nel passato, altrimenti non avrò pace. Cerco su una vecchia agenda e trovo due numeri di telefono, casa e ufficio. Sarebbe un miracolo se lei rispondesse…infatti i miei tentativi risultano inutili: “il numero da lei chiamato è inesistente” mi redarguisce una voce perentoria.
“Bene, la mia ricerca è già terminata - mi dico – è meglio che mi metta il cuore in pace.” Improvvisamente però mi ricordo di una persona che conosco di vista tramite comuni amici: è un signore di mezza età, sempre molto affabile. So per certo che lavora nella stessa compagnia di navigazione dove Anna aveva trovato impiego dopo la laurea. Forse potrebbe conoscerla, o comunque averla incontrata e magari potrebbe dirmi come rintracciarla. Fortunatamente riesco ad avere il suo recapito telefonico e a contattarlo senza troppe difficoltà. Mi ascolta con attenzione mentre spiego il mio desiderio di ritrovare un’amica che non vedo da moltissimo tempo: no, non ha mai conosciuto Anna, ma si offre di fare una piccola ricerca tra le persone che lavorano negli uffici. Qualcuno potrebbe ricordarsi di lei, fornire un recapito…chissà! Trascorrono i giorni tra l’impazienza di avere una risposta e la consapevolezza di inseguire una vana speranza. Finalmente ricevo un messaggio:
“Anna da tempo ha lasciato la compagnia, ma c’è un’impiegata che lavorava a stretto contatto con lei e conserva ancora il suo numero di cellulare che le scrivo qui di seguito. E’ una possibilità. Le auguro di cuore di ritrovare la sua amica. Cordiali saluti.”
Salvo il numero. Non so perché, ma sento di essere sulla strada giusta, eppure non chiamo. Sono combattuta tra il timore che invece quel numero non sia più attivo e allo stesso tempo temo che la voce di Anna mi giunga fredda, distaccata, respingente. Mi trascino ancora un paio di giorni tra mille perplessità, finché una sera abbandono ogni tentennamento e compongo il numero: in quello stesso momento decido che se non avrò risposta o peggio, lei rifiuterà di incontrarmi, la nostra amicizia apparterrà definitivamente al passato. Intanto dal cellulare mi giunge insistente il suono della chiamata che si ripete e si ripete ancora.
Sto per chiudere la comunicazione quando… “Pronto!” scandisce una voce chiara e squillante. Udire la voce di Anna dopo tutti questi anni suscita in me una commozione così intensa che riesco a malapena a parlare.
“Anna – dico quasi senza respiro – ciao. Sono Elena…”
Dall’altra parte silenzio. Io non riesco a dire più niente e nemmeno lei dice nulla. L’eternità in pochi attimi, e poi uno stupore cauto, quasi bisbigliato:
“Elena! O Dio! Elena, sei proprio tu?”
“Sono io, sì. Sono così contenta che tu mi abbia risposto!”
E tutto avviene così, semplicemente, come se la distanza tra noi non fosse mai esistita.
“Come stai?” chiediamo una all’altra contemporaneamente. Ci scappa una risata e diventa più facile raccontare come e perché ho voluto cercarla. Del semaforo rosso e della donna vestita di jeans, con i capelli biondi che mi è passata davanti e che per un attimo ho pensato potesse essere lei, Anna.
“No, non ero io quella, te lo posso assicurare” dice, e io sento che sta sorridendo. Le chiedo se abita sempre a Genova e dove lavora adesso.
“Certo che abito a Genova. E dove sennò? – risponde e aggiunge – da alcuni anni lavoro per una ditta di import export…e ultimamente lavoro in smart working. E tu? Abiti sempre in quei luoghi irraggiungibili?” Ride, non ha perso la voglia di scherzare. Ne approfitto:
“Beh, non sono poi così irraggiungibili, comunque sì, non mi sono mossa da qui…però la prossima settimana devo venire a Genova. Perché non ci incontriamo? – azzardo - Abbiamo tutta una vita da raccontarci, e non possiamo certo farlo per telefono!”
Ora la sento titubante, incerta, ma è solo questione di un attimo:
“Va bene – dice – abbiamo davvero un’infinità di cose da dirci!” E così fissiamo il giorno, il posto, l’ora, mentre dal tono della mia voce traspare la speranza di sentirle dire che anche lei non vede l’ora di riabbracciarmi. Anna invece si limita ringraziarmi per averla cercata, ma è emozionata, lo sento.

In questo pomeriggio limpido e un po’ ventoso, il Porto Antico risplende nel suo particolarissimo affaccio sul mare. Il bigo è il punto dove ci siamo date appuntamento, e io che sono arrivata un po’ prima non riesco a frenare l’agitazione. Mille domande mi attraversano. Soprattutto mi chiedo se dopo questo incontro la nostra amicizia tornerà a essere un legame importante, oppure svanirà nuovamente lasciando in noi un vago ricordo di come siamo adesso, unito ai ricordi della nostra gioventù.
E finalmente la vedo. E resto senza fiato. Con lei c’è un uomo che spinge la carrozzella su cui sta seduta. Anche lei mi vede e fa un cenno di saluto con la mano. Alzo il braccio, agito la mano e rispondo al saluto mentre mi muovo per andarle incontro. Ora siamo qui, una di fronte all’altra. Anna sorride, a me viene da piangere, ed è lei per prima a rompere il ghiaccio. Mi tende le mani:
“Elena! Tu non immagini come sono felice di averti ritrovata!” dice. Cerco di liberarmi dal groviglio di pianto che mi chiude la gola:
“Sono felice anche io Anna! Immensamente felice.” Non riesco a dire altro, mi chino su di lei e l’abbraccio. Lei, come può, si stringe a me, poi mi allontana un poco e indica la carrozzella:
“Come vedi non sono stata molto fortunata” dice.
“Anna… cosa ti è successo?”
“Vedi, è scattato anche per me il semaforo rosso – si interrompe per un attimo, alza gli occhi, e rivolge uno sguardo innamorato all’uomo che l’accompagna – ma il semaforo rosso mi ha riportata da lui” conclude con un sospiro e una sfumatura di gratitudine. Lui sorride e mi tende la mano:
“Ciao Elena” dice.
“Ciao Giovanni – rispondo ancora incredula – è una bellissima sorpresa vedervi insieme!”
Poco dopo le nostre vite scivolano fluide nel racconto di noi come il drink che sorseggiamo piano.
“Ai semafori rossi!” esclama Anna.
I bicchieri tintinnano. Sì, ai semafori rossi e al desiderio di ritrovarsi.
 
      
SEMAFORO ROSSO