SUPERSTITE   
Naufragio piroscafo ORIA
12 febbraio 1944


Rodi: 11 febbraio 1944. IL mio reggimento era stato fatto prigioniero dai tedeschi il 13 settembre 1943 e ora, dopo mesi, ci stavano imbarcando su un piroscafo per trasferirci in un campo di prigionia probabilmente in Germania. In prima battuta da Rodi eravamo diretti al Pireo di Atene. In fila, uno dopo l’altro, incalzati dagli ordini urlati dei tedeschi, salivamo a bordo di quell’imbarcazione fatiscente che già a prima vista dava l’impressione di galleggiare per miracolo. Infatti si trattava del piroscafo norvegese Oria, ormai in disarmo, che era stato sequestrato dai tedeschi per il trasporto dei prigionieri. Ci chiedevamo come avrebbero potuto caricarci tutti, ma i tedeschi continuavano a farci salire e nel frattempo caricavano  barili, pneumatici da camion e moltissimo altro. Riuscirono a stiparci in più di cinquemila su una nave che aveva la capienza di novecento persone e che, dettaglio non trascurabile, avrebbe dovuto essere demolita.
A un certo punto nella fila che mi scorreva a fianco ho riconosciuto un commilitone originario delle mie parti, anche se non proprio del mio paese. L’ho chiamato. Lui mi ha riconosciuto a sua volta e subito mi ha fatto segno di passare nella sua fila per stare insieme, che tanto ormai la nostra appartenenza a questo o a quel reggimento non aveva più importanza. Io ci ho pensato un attimo, poi gli ho risposto di no: avevo deciso di rimanere lì dove mi avevano messo qualunque fosse stato il mio destino. La mia fila è stata fatta salire sul ponte della nave, l’altra fila letteralmente cacciata nelle stive. Li hanno chiusi là sotto come topi in trappola. Noi almeno potevamo respirare. Non riuscivo a togliermi dalla testa il pensiero di quei poveretti là sotto. Forza ragazzi, forza, ripetevo: a me, a loro e a tutti quelli che avevo vicino.
Per i tedeschi non eravamo più soldati e neanche uomini, ma soltanto traditori. Meritavamo di essere trattati nel peggior modo possibile e se stavamo ammassati, schiacciati uno contro l’altro, senza mangiare né bere, ancora grazie, che invece avrebbero dovuto fucilarci tutti. Questo era quello che ci dicevano i nostri ex-alleati e per loro ogni angheria nei nostri confronti era giustificata. 
Quando il piroscafo si è mosso era quasi buio: abbiamo lasciato Rodi. Faceva freddo e il mare era piuttosto agitato: noi stavamo là in mezzo alle onde, senza poterci muovere,  un po’ a farci coraggio, un po’ muti nella nostra disperazione. C’era chi stava male, e nessuno poteva far niente per nessuno, anzi le cose andarono decisamente peggio quando, durante la notte si è scatenata una violenta tempesta; vento e pioggia fortissimi  hanno investito il piroscafo che ha iniziato a imbarcare acqua. Sembrava il diluvio. Io credo che tutti avessimo la certezza che stavamo affondando. Poi c’è stato un fortissimo boato. La nave si era schiantata contro uno scoglio,  presso Capo Sounion, a poche miglia da Atene. Sento ancora il rumore assordante del mare, le grida e l’acqua che mi entrava in gola. Per un po’ ho cercato di nuotare, ma verso dove? Galleggiava di tutto e io mi sentivo pesante come se avessi avuto le tasche piene di pietre. La forza del mare era troppo per me, non ce l’avrei mai fatta. All’improvviso, quando ero sul punto di arrendermi, mi sono reso conto che con i piedi avevo toccato terra. Mi sono trascinato a riva e lì ho capito che non ero solo: c’era un altro soldato vivo, vicino a me. Ci siamo tirati su, ci siamo abbracciati, poi abbiamo cominciato a camminare insieme, cercando una direzione da prendere nel buio più totale. Quando ho sentito una mano afferrarmi per un braccio ho pensato “ecco, ci hanno già preso” invece era un greco, un uomo dalla corporatura robusta, con una folta barba nera. Forse un pescatore. Ci ha fatto capire di andare con lui, e noi siamo andati. Ci ha portati in una abitazione, dentro a una grande stanza con un fuoco acceso e attorno al fuoco ho visto una decina di altri  scampati al mare, nudi, che si asciugavano come potevano. A tutti il greco ha dato da bere del vino resinato e qualcosa da mangiare.
Non dimenticherò mai quell’uomo e quello che ha fatto per noi e gli sarò riconoscente per sempre.
I greci sono brave persone; anche a Rodi se potevano ci aiutavano. Il giorno dopo sono arrivati i tedeschi e ci hanno ripreso in consegna. Dovevamo raccogliere i morti e seppellirli. Non si finiva mai: ce li ho ancora davanti agli occhi. Abbiamo scavato fosse e seppellito morti per una settimana.
In seguito, sempre prigioniero dei tedeschi, ho rischiato più volte di essere fucilato, ho subito umiliazioni di ogni tipo, ho patito la fame di continuo, giorno e notte, ho mangiato qualsiasi cosa, persino foglie di faggio, e gli altri come me. Sono riuscito a scappare, ho camminato per giorni interi, poi mi hanno ripreso e riportato indietro.
Quando finalmente sono ritornato a casa, mi sono recato dalla famiglia del fante originario delle mie parti per dire quello che sapevo, e cioè che il loro figlio era finito nelle stive di quella maledetta nave e se non fosse più tornato era perché non ce l’aveva fatta.
Io mi ero salvato. Non so se per semplice casualità, per l’intervento del fato o per un miracolo ero uno dei trentaquattro superstiti italiani su più di quattromila soldati che morirono nel naufragio, dati per dispersi e dimenticati là, in fondo al mare. Noi sopravvissuti eravamo voci senza importanza, che nessuno voleva ascoltare, perché a guerra finita si voleva guardare solo avanti e dimenticare al più presto tutta quella sofferenza. Era giusto così? Non lo so, ma so che quella notte tragica è rimasta impressa nella mia anima come un segno indelebile, un ricordo nitido e lancinante come fosse accaduto ieri e vorrei tornare là, davanti a quel mare per dire a tutti loro che vi hanno trovato la morte che io li porto sempre nel cuore. Tutti, anche quelli che non conoscevo.

Aldo Percivale classe 1922