Il banco di legno, anche se composto da varie parti, risultava tutto d’un pezzo ed assomigliava molto ad un inginocchiatoio a due posti. Ogni occupante poteva usufruire di un calamaio, dello spazio per posare penna e matita e di un piano leggermente inclinato per scrivere, chiamato “ribalta”, che si poteva alzare o abbassare secondo il bisogno; sotto alla ribalta si trovava l’appoggio per sistemare la cartella ed un sedile unico con il poggia schiena, neanche troppo scomodo, completava il tutto.
La ribalta era una componente estremamente importante dell’insieme perché ci permetteva l’illusione di nasconderci. Certe mattine, quando non riuscivo a contenere il pianto nei limiti tacitamente imposti, spesso alzavo la ribalta per dar sfogo al grumo che mi chiudeva la gola, fingendo di cercare qualcosa nella cartella. Ma cosa potevo cercare visto che nelle nostre cartelle non c’era più dell’indispensabile e tutto ciò che mi occorreva l’avevo già lì, davanti ai miei occhi? La carta assorbente, la morbida, rassicurante, indispensabile carta assorbente che oltre ad assorbire l’inchiostro faceva scomparire pure le lacrime piovute sul foglio: io cercavo sempre la carta assorbente. In realtà già l’avevo lì, pronta sul quaderno, poiché era un comandamento inoppugnabile quello di scrivere facendo scorrere la carta assorbente sulla pagina, dall’alto al basso, riga dopo riga, al fine di prevenire le vituperate macchie d’inchiostro, ma io con un colpo d’astuzia la facevo passare sotto la ribalta per poi poterla cercare.
Neanche a dirlo, da lassù, la maestra si accorgeva perfettamente delle manovre in questione e per un po’, strano ma vero, faceva finta di niente, poi quando aveva dato fondo da un pezzo alla sua corta pazienza, mi richiamava con voce tonante e il mio cognome risuonava nell’aula come una fucilata.
Tutte le mie compagne allora mi guardavano ed io trovavo consolazione nei loro occhi, sospendevo per un poco la perpetua lacrimazione e continuavo il mio lavoro.
In quarta e in quinta classe ci si nascondeva dietro alla ribalta quando si sperava di sfuggire ad una interrogazione, come per mandare un messaggio tipo “non ci sono”, ma al contrario così facendo si attirava subito l’attenzione della signorina R. e l’interrogazione era assicurata. Infine, con la testa dietro la ribalta alzata si cercava di comunicare con le compagne, anche quelle che stavano nei banchi più indietro,soprattutto per chiedere aiuto alle più brave allorché ci si trovava in “en passe”. Quella era l’anticamera della cella d’isolamento.
Nei miei sogni più surreali immaginavo noi bambine concordarci per una generale “levata di ribalte”, tutte allo stesso istante, proprio come fossero scudi, su cui cozzavano inutilmente gli strali infuocati lanciati dalla “pianta scolastica” ed ella, alla fine, visto che contro le ribalte non c’era niente da fare, scendeva dal catafalco senza il bastone, ci faceva uscire dai banchi e diceva con voce allegra... “dai, bambine, facciamo un bel girotondo!” Già, un sogno.
Un passo tratto da Storie Semplici

Racconto
- penna, inchiostro e calamaio -